“Etnografi e folkloristi, anche per la fondamentale influenza dell’opera di Leroi-Gourhan, hanno insistito molto sul tema della fine del lavoro manuale nell’epoca contemporanea. Hanno così accentuato la contrapposizione fra un lavoro tradizionale, integro e autentico, che impegna in modo equilibrato le varie facoltà umane (mano, occhio e mente), che va scomparendo sulla spinta dell’automazione e della terziarizzazione e che è compito dell’antropologia, per quanto ancora possibile, documentare e salvare; e, dall’altra parte, un lavoro moderno, frammentario, vissuto passivamente da individui monodimensionali e tecnicamente deculturati, che non merita le cure dell’etnografo. Mi pare che questo atteggiamento non solo esageri il grado di automazione della modernità, ma sottovaluti la capacità di resistenza della manualità; una resistenza che si manifesta non solo in tutta quella parte del mondo in cui il processo di esteriorizzazione tecnica, come lo chiama Leroi-Gourhan, è ancora ben lontano dal compiersi, ma anche nel cuore dello stesso Occidente industriale.
È presente oggi, tra noi, tutta una gamma di comportamenti tecnici e manuali che non sono stati spazzati via d’un sol colpo dall’automazione, e nei quali conservano grande importanza il venire a patti con la materia e il coordinamento mano-occhio-mente. Il lavoro operaio è tutt’altro che scomparso: è arbitrario e improbabile considerarlo come tecnicamente deculturato, secondo il classico modello tayloriano. In ogni caso, è indispensabile conoscerlo etnograficamente (…). E ancora, si pensi alla ripresa consapevole di tecniche manuali tradizionali nell’ambito del tempo libero e del leisure, come la coltivazione di orti e giardini (di cui sono pieni gli interstizi degli spazi urbani), le attività di bricolage, il modellismo, il ricamo, lo sport. Leroi-Gourhan, e con lui molta antropologia contemporanea, condannano queste pratiche come caricature del vero lavoro, o al massimo pratiche sostitutive, sintomi di insoddisfazione e decadenza, valvole di sfogo in una realtà che non dà spazio a certi bisogni naturali degli esseri umani. Ma non potremmo al contrario pensare a queste pratiche come modi di valorizzazione culturale del lavoro, al di là della sua stretta razionalità economica? E comunque, perché un processo di documentazione della cultura popolare dovrebbe considerarle meno meritevoli di attenzione, poniamo, delle tecniche e degli strumenti del lavoro contadino tradizionale?”
Fabio Dei, Beethoven e le mondine. Ripensare la cultura popolare (2002: 91-92).