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La Provincia di Mantova

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Gentiluomo: Disegno di Felice Campi 1811
Felice Campi 1811

Il Contadino, disegno di Felice Campi 1811
Felice Campi 1811

Donne, disegno di Felice Campi 1811
Felice Campi 1811

Contadina, disegno di Felice Campi 1811
Felice Campi 1811

Giacoma Foroni, disegno di Felice Campi 1811

Felice Campi 1802
Ritratto di Giacoma Foroni
da
Relazione su Giacoma Foroni
Deputazione della classe medico-chirurgica dell'Accademia Virgiliana di Mantova
13 maggio 1802

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Letture: L'invenzione del folklore

(di Giancorrado Barrozzi)

L'INVENZIONE DEL FOLKLORE NEL REGNO ITALICO E IL DIPARTIMENTO DEL MINCIO

Nel 1811 il direttore generale della pubblica istruzione del Regno italico, Giovanni Scopoli, indirizzò ai docenti dei licei e successivamente ai prefetti dei vari dipartimenti una serie di circolari intese a raccogliere informazioni di carattere etnografico sulle popolazioni del Regno.

Egli chiese l'invio di illustrazioni appositamente eseguite riguardanti le “Foggie di vestire che si usano ancora dagli abitanti delle campagne”, sollecitò relazioni sulle costumanze, i pregiudizi ed i dialetti degli abitanti dei vari comuni e infine cercò di stimolare un'accurata indagine sulla tipologia delle abitazioni rurali.

I materiali elaborati in risposta a tali inchieste sono ora conservati presso le carte Scopoli della Biblioteca comunale di Verona, per quanto concerne le relazioni manoscritte, e, per i soli bozzetti dei costumi popolari, stanno invece presso la civica Raccolta Bertarelli di Milano.

Grazie ad un lungo e paziente lavoro di ricerca e trascrizione, il folklorista Giovanni Tassoni trasse dall'oblio quest'importante fonte documentaria che sta alle origini degli studi etnografici sul popolo italiano. Nel 1973 Tassoni pubblicò presso l'editore Casagrande di Bellinzona un ricco volume contenente le riproduzioni dei duecento bozzetti di costumi popolari ricevuti dallo Scopoli ed i testi delle relazioni sulle usanze degli abitanti di quindici dipartimenti del Regno italico (TASSONI, 1973).

Nella sua ampia introduzione a quest'opera, Tassoni inquadrò storicamente l'iniziativa intrapresa dal funzionario napoleonico, segnalandone i punti di contatto con altre inchieste coeve, prima fra tutte quella promossa dall'Académie Celtique di Parigi riguardante i cieli dell'anno e della vita umana, gli antichi monumenti della Gallia e le credenze e superstizioni del popolo francese (OZOUF, 1981; BELMONT, 1980; MORAVIA, 1978, pp. 196-199).

Già nella traccia preparata da Denina, Cambry, Johanneau, Mentelle, Mangourit e Dulaure per l'inchiesta sulle vestigia celtiche figuravano infatti domande analoghe a quelle che successivamente Scopoli indirizzò ai propri corrispondenti.

Questi prese addirittura le mosse da uno degli ultimi quesiti formulati dagli accademici d'oltralpe, per l'esattezza il quarantanovesimo dei cinquantuno che essi avevano deliberato di far giungere a tutte le prefetture di Francia: «Qu'ont de particulier les différens costumes des habitans des campagnes … ?».

In risposta al quesito analogo posto dal direttore generale della pubblica istruzione del Regno italico sulle fogge degli abiti dei contadini pervennero dal Dipartimento del Mincio (che includeva località dell'attuale provincia di Mantova oltre ai comuni di Ostiano e Isola Dovarese, che poi passarono al Cremonese) sei disegni, di cui quattro colorati all'acquerello, eseguiti dal pittore Felice Campi. Nella sua lettera accompagnatoria l'artista si compiacque di segnalare al funzionario napoleonico «il lusso villano dei nostri paesi sì nell'uomo che nella dorma», sottolineando così in modo esplicito la maggiore attenzione posta nel documentare i tratti festivi del costume popolare rispetto a quelli della quotidianità (BAROZZI, 1988, pp. 37-38).

Dei sei bozzetti disegnati dal Campi uno solo ritrae un contadino durante una pausa del lavoro, nell'atto di posare le braccia incrociate al manico della vanga. Gli altri cinque raffigurano invece contadine che si recano al mercato indossando i loro abiti migliori o paesani d'ambo i sessi parati a festa, simili a figuranti d'un balletto campestre settecentesco.

Riguardo ai quesiti sugli usi e i pregiudizi del popolo giunsero allo Scopoli dal Dipartimento del Mincio le risposte di sei informatori. Il prefetto Michele Vismara, dopo averle sollecitate presso parroci e podestà, le trasmise al professore di Belle Lettere del Liceo di Mantova Anselmo Belloni, il quale le girò a Milano nei testi originali e senza alcun commento.

Sul «Bollettino Storico Mantovano» del gennaio - giugno 1959 Giovanni Tassoni pubblicò, assieme alle trascrizioni di queste sei relazioni, un'erudita nota nella quale ne esaminò in dettaglio i contenuti attenendosi all'originario schema d'indagine proposto da Scopoli, che si basava sui cicli della vita umana e sulle ricorrenze calendariali festive (TASSONI, 1959).

L'immagine del Mantovano che Tassoni ricavò da quelle relazioni fu quella di «un piccolo mondo quasi avulso dalle correnti dominanti del traffico» e di «un folklore ( … ) ancora ben conservato e riconoscibile, alla cui radice stanno i riti agrari e i fuochi stagionali» (IBIDEM, p. 62):

Eppure, a rileggere oggi quelle stesse pagine che recano le firme dei parroci di Goito e di Nuvolato, dell'arciprete della chiesa cittadina dedicata a Santa Maria della Carità, dei podestà o di funzionari civili di Gonzaga, Viadana ed Ostiano, troviamo che esse contengono indicatori significativi di una realtà assai meno statica e tradizionale di quella tramandataci per il passato.

La maggior parte degli estensori delle relazioni inviate al prefetto del Dipartimento del Mincio rilevò che tra il popolo i pregiudizi e le superstizioni andavano in quel tempo gradualmente riducendosi:

«pregiudizi e superstizioni propriamente dette non ne ho scoperte in queste Comuni» (don Carri, Nuvolato);

«nulla evvi di rimarchevole rapporto alle storte opinioni, agli errori ostinati, e ad una irragionevole credulità» (Piovani, Ostiano);

«a me è parso di vedere in essi delle costumate persone, e libere da opinioni pregiudicate e superstiziose» (Garofoli, Viadana);

«se pria del 1796, eranvi de' pregiudizi e delle superstizioni ne' tempi sovraccennati; la serie di vicende non ha guari avvenute nel sistema politico e religioso ha contribuito ( … ) ad eliminarli quasi del tutto» (don Morandi, Mantova).

Queste affermazioni non furono dettate unicamente dalla generica intenzione di rassicurare le autorità politiche del momento. Esse valgono piuttosto ad attestare che già dal secolo innanzi si era avviata non solo in città, ma anche nelle campagne del Mantovano, un'intensa opera di propaganda volta a sradicare ogni forma di pregiudizio e di superstizione. A quest'opera non rimase estraneo il clero locale.

Un sacerdote della Diocesi di Mantova, Ambrogio Zecchi, fu ad esempio autore di una dissertazione su La Magia screditata, che venne inviata all'Accademia di scienze lettere e arti in data anteriore al 1775 (ZECCHI in Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova, Archivio della Vecchia Accademia, b. 42; BALDI, 1979).

In essa il sacerdote mantovano, inserendosi nella polemica settecentesca tra Girolamo Tartarotti e Seipione Maffei sulla stregoneria (BONOMO, 197 1), affrontò il tema degli incantamenti e dei notturni congressi di streghe e magliardi, ed affermò essere «tale e tanto lo scredito che a quest'opinione sono io per fare, che dovrà sorgere in voi pure, come in me è sorta suspizione che tutto sia onninamente false imposture» (ms. ZECCHI, p. XXVI).

Nel 1806 Ambrogio Zecchi ricevette con decreto napoleonico la nomina a parroco primicerio della basilica di Sant'Andrea, carica che egli ricoprì sino al 1834. Non ci stupiremo quindi nell'apprendere dalla relazione appositamente scritta il 28 agosto 1811 per l'inchiesta Scopoli dall'arciprete mantovano Domenico Morandi che «ora da più anni» era cessato l'abuso «che i così detti energumeni, il numero de' quali veniva accresciuto dalla ignoranza e dal fanatismo, qualora si conducessero a S. Andrea di questa città nel Venerdì santo, ove dar si soleva la triplice benedizione del Preziosissimo Sangue che ivi si adora, ottenuta avrebbero la sospirata liberazione».

Certo ecclesiastici illuminati come Ambrogio Zecchi e Domenico Morandi non assecondarono mai, come scrisse quest'ultimo, d'idea de' maleficj o deg'invasamenti colla profusione delle loro benedizioni ed esorcismi» (TASSONI, 1959) e la fermezza di membri del clero come loro riuscì ad interrompere alle soglie del XIX secolo il concorso nella città di Mantova di quella folla di ossessi che un tempo scatenavano il loro parossismo al Venerdì santo nella cattedrale. In altre chiese e santuari dell'Italia centro settentrionale, ad esempio a Caravaggio nel Bergamasco e a Sarsina nel Forlivese, il clero locale non seppe invece por fine alla tradizione dei rituali esorcistici e le inquietanti sagre degli ossessi proseguirono in quei luoghi per tutto il corso del nuovo secolo.

Come attesta la relazione dell'arciprete Morandi, non tutto il clero mantovano si trovò però allora compattamente schierato sulle medesime posizioni

di ripulsa nei confronti dell'«idea de' maleficj o degl'invasamenti» e, più in generale, verso ogni sorta di «pregiudizj e superstizioni».

Alcuni religiosi, specialmente quelli delle più povere parrocchie di campagna, scrisse Morandi, continuavano infatti ad assecondare credenze e pratiche religiose tradizionali, poiché quasi soltanto da esse potevano trarre le magre risorse che davano loro da vivere. Ma ciò che più conta in questa delicata fase di transizione fu il fatto che nel Dipartimento del Mincio, come in quelli dell'Olona, del Serio e in altri ancora del Regno italico, il centro stava già facendo piani e dettando norme per ridurre alla ragione le periferie.

«Facilmente, a mio credere, potrebbonsi togliere i superstiziosi pregiudizi di farsi segnare, e dei così detti maleficiati, e basterebbe che dal Governo si multassero codesti settimini che segnano, od i semplici sacerdoti che accettano e benedicono coloro che, coll'idea del maleficio, si presentano ad essi per esser benedetti. Che in tal modo, divenendo una simil professione da lucrosa, dannevole, col togliersi di tali segni e benedizioni, tolte pur saranno codeste superstiziose immaginazioni. Anzi, per ciò che riguarda l'allontanare dal rozzo popolo l'idea di maleficio, converrebbe che il Governo con man forte scacciasse al momento dalla Chiesa, e da pubblici luoghi, coloro che come tali si presentano in certe feste, ed in certi santuari, come vidi io stesso nel Santuario della Madonna di Caravaggio» fu la drastica proposta che Siro Landriani, parroco di Villanterio, Distretto dell'Olona, inviò in data primo agosto 1811 al vice prefetto di Pavia (TASSONI, 1973, p. 95).

E di rincalzo l'arciprete della parrocchia di Santa Maria della Carità in Mantova scrisse in quello stesso anno: (Amerei per altro che salve le prattiche osservate dalla Chiesa, alcuni ecclesiastici e Parrochi massimamente de' più poveri, che ne ritraggono, quasi direi, tutta la loro sussistenza, non corroborassero cotai pregiudizj e superstizioni» (TASSO~ NI, 1959).

Il parroco di Goito, rispondendo alla medesima inchiesta, ammise dal canto suo che «rimane ( … ) in molte Famiglie rurali, più o meno, la opinione delle streghe e stregherie, specialmente in occasione di malattie e morti di Bambini, che porta i genitori a degl'eccessi, com'è accaduto. Vi rimangon dei modi superstiziosi, che alcune volte dalla gente rozza si usano contro le Febbri, od altri malori. Vi rimane del trasporto, e della irregolarità verso le Immagini, certune delle quali, non ostanti le debite istruzioni di Parrochi, riguardate vengono, e credute dal volgo da se sola, e per se stessa effettivamente miracolose>, (IBIDEM).

Testimonianza, pure di estrazione clericale, in cui significativamente spicca, in funzione di autodifesa, a fronte dell'elenco delle false credenze del popolo, una dichiarazione di assoluta estraneità ad esse da parte del parroco. Il sacerdote di campagna è ormai fatto partecipe di una visione del mondo in cui non trovano più posto né stregherie né immagini miracolose e, sia pure andando incontro talvolta a degli insuccessi, appare impegnato nell'istruire i parrocchiani per indurli a desistere dalle loro «irregolarità» e «modi superstiziosi».

Il bilancio che l'arciprete di Goito trae da questo impegno non risulta, in fin dei conti, del tutto sconfortante. Don Sartorio ritenne infatti che anche nella sua parrocchia i pregiudizj si sono diminuiti al presente, e le superstizioni in confronto del passato» e riguardo alla nascita, morti e tumulazioni osservò non esservi «cosa da rimarcare in questo Circondario, nulla costumandosi qui di particolare, ne di superstizioso, a riguardo ai Defunti essendosi omaj tutti adattati a metter nella cassa i loro Morti, ed in essa chiusi tradurli alla Chiesa ed al seppellimento» (IBIDEM).

Anche per il Cantone di Viadana Garofoli, nella sua relazione inviata al prefetto, ebbe ad apprezzare la compostezza delle esequie: «ne vi ho osservato - egli scrisse - come mi accade di osservare nel Dipartimento del Bacchiglione, dove all'occasione che portasi un defunto al sepolcro viene accompagnato da un corteggio di Donne che piangono ed urlano scarmigliate come le Prefiche dei Romani e ciò con tale strepito e schiamazzo che si odono in distanza di qualche miglio» (IBIDEM).

Le dettagliate descrizioni che delle esequie diedero il parroco di Santa Maria della Carità e il podestà di Ostiano valgono a confermare poi per il Dipartimento del Mincio quel pieno regresso della carica angosciosa investita nella morte che fu uno dei più significativi punti di approdo della coscienza moderna (FUCHS, 1973)

L'immagine più nitida del Dipartimento del Mincio e dello stato della sua popolazione negli anni del Regno italico ci è offerta però da un'opera scritta dal direttore dell'ufficio di statistica Melchiorre Gioia.

Commissionatagli nel 1807 dal ministero dell'interno, la Statistica del Dipartimento del Mincio era già ultimata nel 1813, ma purtroppo essa poté trovare pubblicazione solamente nel 1838, a nove anni dalla morte dell'autore.

In poco più di quattrocento densissime pagine Gioia illustrò topografia, popolazione, mezzi di produzione, arti e mestieri, commercio, istituzioni pubbliche, usi e costumi di quel Dipartimento.

Non solo geografi, demografi e storici dell'economia possono trovarvi utili notizie sul Mantovano del primo Ottocento, ma persino chi è spinto da interessi etnografici vi potrà attingere informazioni davvero preziose.

Poiché Giovanni Tassoni, nella sua introduzione alle Inchieste napoleoniche si è limitato a dar solo un rapido cenno di questa pionieristica indagine statistica, mi soffermerò ora sui passi di essa che hanno più stretta attinenza con alcuni dei quesiti formulati nel 1811 dal conte Giovanni Scopoli.

E' agevole dimostrare che questa Statistica annovera tra i molti suoi pregi anche quello di offrire contributi essenziali per una migliore conoscenza in chiave etnografica e folklorica delle culture del popolo mantovano del primo Ottocento. Essa servirà quindi ad integrare le scarne notizie sugli abiti e le usanze locali offerte allo Scopoli dai corrispondenti del Dipartimento del Mincio.

Quanto ai vestiti indossati dai contadini della riviera del Mincio Gioia registrò con cura i vari tipi di tessuti con cui erano confezionati. Quelli invernali: mezzolano, ossia stoffa di canapa mista a lana fabbricata in casa, talvolta grosso panno detto gratagno, sia per gli uomini che per le donne anziane, panno ordinario per le donne giovani e quelli estivi: tele ordinarie, per lo più di canapa, talvolta fustagni per gli uomini o per le vecchie e stoffe di bavella o fioretto, oppure tele di bambagia a vivi e ben ordinati colori per le giovani (GIOIA, 1838, p. 425).

Gioia inoltre non trascurò di annotare al riguardo i suoi giudizi: «pare che nella bassa plebe la sensazione fisica prevalga sulla morale od almeno sulla vanità, giacché si vedono abiti sdrusciti e tavole imbadite» (IBIDEM, p. 425).

Specialmente i garzoni delle botteghe artigiane di Mantova, scrisse Gioia, sono «più sensibili ( … ) ad un boccale di vino che ad un bel gilet» ed appena lavorano quanto basta per soddisfare i bisogni fisici» (IBIDEM, p. 429). Mentre le donne, se ne hanno la possibilità economica, «traggono gli abiti da Lione e da Milano ( … ) al fine di poter unire la piccolissima idea della loro persona all'idea di città grandi lontane, e crescer così di qualche palmo in lungo in largo» (IBIDEM, p.428).

L'immagine del Mantovano che Gioia ci rinvia dalla distanza di quasi due secoli non ricalca il profilo di maniera d'un microcosmo posto ai margini delle principali correnti di traffico e lontano dalle idee e dalle mode metropolitane.

Al contrario, egli sottolineò il fatto éhe «la centralità di Mantova, relativamente ai paesi di ricca produzione, e di esteso consumo, la sua posizione sulle acque, per cui vengono facilitati i trasporti, sono le due circostanze per le quali quella città servì sempre a diffondere le merci, che da Milano, Cremona, Brescia, Verona, ed altre Piazze si trasmettono a Ferrara, Modena, Bologna, Reggio, Venezia, ed a vicenda; altre strade di transito tra questi punti estremi aumenterebbero la spesa del trasporto e scemerebbero celerità al commercio» (IBIDEM, p. 260).

Il traffico si svolgeva allora soprattutto per via fluviale e Gioia segnalò che «le barche del Mincio sono in continuo moto, e non giaciono inerti come quelle dell'Adriatico» (IBIDEM, p. 254).

In quegli anni l'agricoltura mantovana non fu certo esente da difetti. Melchiorre Gioia annoverò tra i principali di essi la presenza di «colture uniformi più seguite per consuetudine, che adattate alla qualità dei terreni», l'«opinione erronea sull'inettitudine de' terreni a certi prodotti per esempio lino e canapa» e l'uso di «aratri grossolani, e pesanti» (IBIDEM, p. 174), tuttavia egli seppe scorgere che anche in quest'ambito stavano realizzandosi importanti trasformazioni. Come scrisse nella relazione inviata al prefetto il corrispondente Garofoli, a Viadana la coltivazione della canapa già era ampiamente diffusa: «i canapaj dano al Viadanese il prodotto di L. 60.000 Prov.li calcolando il secosimile prodotto di Pesi 60.000 ogni anno- prodotto che non si ha dal canape nelle altre parti del Dipartimento, quivi essendo della miglior qualità, e qui pure avendosene in maggior copia» (TASSONI, 1959). Altri segni di perfezionamento nell'industria agraria segnalati da Gioia furono la maggiore esportazione di vini dal Mantovano, l'alienazione a privati di una gran massa di fondi delle soppresse corporazioni, l'aumento delle affittanze e il costante incremento delle irrigazioni sia per i prati che per le risaie (GIOIA, 1838, p. 176-177). Soprattutto la recente «riforma dell'orizonomia mantovana» nei terreni della Sinistra del Mincio rappresentò per l'autore della Statistica un positivo fattore di sviluppo (IBIDEM, p. 173, n. 1).

Riguardo al commercio, scrisse Gioia, i rami più lucrosi: grani, vino, sete, pelli, pannina, bijouterie, gemme erano in quel tempo diretti da sedici case ebree di Mantova, o sostenuti dai loro capitali (IBIDEM, p. 266). Su molti aspetti dell'importante presenza ebraica nella città di Mantova Gioia scrisse pagine di notevole interesse. In esse documentò la convenzione stipulata nell'anno 1735 tra l'Università degli Ebrei e gli studenti mantovani per il giorno di Santa Caterina, esaminò le particolari condizioni dell'istruzione dei fanciulli ebrei, fece cenno all'atterramento delle porte del ghetto di Mantova voluto da Napoleone, descrisse i bagni rituali delle donne ebree, lodò le assidue cure paterne che gli ebrei prodigavano ai loro figli e mise al corrente delle fortunate iniziative commerciali di alcune famiglie israelite stabilitesi a Mantova.

Quanto alla religiosità dei cristiani, Melchiorre Gioia non tralasciò di rilevare che «la somma degli atti religiosi continuando nelle campagne come prima, in Mantova con qualche diminuzione, sembra scemata d'intensità» (IBIDEM, p. 359).

Il più evidente indicatore di questo calo di devozione popolare in ambito urbano fu, a giudizio di questo stesso autore, il recente abbandono da parte di numerose categorie di lavoratori dell'osservanza delle festività tradizionali riservate ai santi protettori. Emerge così nell'inchiesta condotta da Gioia un'insospettata gamma di scelte e di comportamenti agiti da molti strati del popolo di Mantova, che già appaiono emancipati dalle antiche consuetudini.

Formaggiari, salsamentari e pizzicagnoli «da sedici e più anni ( … ) hanno cessato di solennizzare il loro protettore (S. Pietro Martire), cosa tanto più rimarchevole in quanto che questa classe è una delle più attaccate alle divozioni popolari» (IBIDEM, p. 361).

Neppure i sarti celebravano più al 13 novembre la ricorrenza di S. Omobono: «i sarti, non so se stanchi di portare il loro santo da una chiesa all'altra, cessarono di solennizzare la festa, sono ormai otto anni» (IBIDEM).

Parrucchieri e barbieri avevano anch'essi tralasciato di festeggiare il 27 settembre i loro santi protettori, Cosma e Damiano: «questa festa è sospesa da circa 3 anni, e ne è la causa la diminuzione de' proventi dell'arte, daché la moda ha tagliato i capelli agli uomini, e ne ha cacciata la polve» (IBIDEM).

Persino i brentatori, appartenenti all'ultima corporazione ancora organizzata di fatto nella Mantova napoleonica, annotò Melchiorre Gioia, un tempo devoti a S. Cristoforo, «dacché la chiesa di S. Cristoforo è stata soppressa hanno cessato di fare la festa» (IBIDEM).

1 fabbri ferrai, i magnani, i maniscalchi e i sellai «più saggi degli altri, fissando la festa del loro protettore (S. Alò) in domenica, dimostrano che per celebrare la solennità de' santi non fa d'uopo violare i diritti delle famiglie, le quali per vivere abbisognano de' guadagni, e quindi de' lavori del loro capo» (IBIDEM).

1 facchini di Porto Catena e i garavani (facchini della Dogana) si trovavano addirittura «privi di santo protettore» limitandosi a una tiepida «divozione alla Beata Vergine senza destinare per essa un giorno particolare, cioé senza cessare di servire il pubblico (IBIDEM).

A questa ventata di novità non si opponevano allora che le residue tradizioni di poche categorie. Tra esse vi era la celebrazione di mezza Quaresima < che si tiene da Fornari di Suzzara per antica cosuetudine > (TASSONI, 1959), un baccanale che il parroco di Nuvolato, rivolgendosi nel 1811 al prefetto, giudicò «un disordine del sagro tempo di Quaresima e della ragione istessa» e l'usanza propria dei calzolai, devoti ai santi Crispino e Crispiniano festeggiati il lunedì susseguente al 25 ottobre, rimasti fermi nel loro proposito «di non lavorare al lunedì» dato che, scrisse Gioia, la festa de' loro santi protettori fissata in quel giorno li conferma nella loro prava abitudine» (GIOIA, 1838, p. 361).

«Non si onorano i santi abbandonandosi all'ozio, o consumando in un giorno all'osteria il guadagno di una settimana intera», commentò risentito a questo riguardo il vecchio rivoluzionario piacentino (GIOIA, 1838, p. 361).

Nuove abitudini, dettate dall'esigenza di una produzione ininterrotta e da una nuova disciplina del tempo, stavano ormai disponendosi anche nel Dipartimento del Mincio a mutare le culture del popolo e a cancellare inesorabilmente antiche consuetudini.

I lunedì festivi dei calzolai e il baccanale quaresimale dei fornai di Suzzara non si erano ancora del tutto dissolti negli anni di Scopoli e di Gioia, ma ancora per quanto avrebbero conservato vitalità se di essi, come delle sopravvivenze di un morto passato, già aveva preso ad occuparsi una nuova scienza antiquaria: la scienza del folklore?

BIBLIOGRAFIA E FONTI

BALDI M., Filosofia e cultura a Mantova nella seconda metà del Settecento. I manoscritti filosofici dell'Accademia Virgiliana, Firenze 1979.

BAROZZI G., Pittori, caricaturisti, fotografie lavoratori della terra, in L'età contemporanea, catalogo del Museo Civico del Risorgimento e della Resistenza «R. Giusti», Mantova 1988.

BELMONT N., L'Académie Celtique, in Hier pour demain. Arts, Traditions et Patrimoine, Paris 1980.

BONOMO G., Caccia alle streghe. La credenza nelle streghe dal sec. XIII al XIX con particolare riferimento all'Italia, Palermo 1971.

FUCHS W., Le immagini della morte nella società moderna. Sopravvivenze arcaiche e influenze attuali, Torino 1973.

GIOIA M., Statistica del Dipartimento del Mincio, Milano 1838.

MORAVIA S., La scienza dell'uomo nel Settecento, Bari 1978.

OZOUF M., L'invention de l'ethnographie francaise: le questionnaire dell'Académie Celtique, in «Annales E. S. C. », a. XXXVI, n. 2, 1981, pp. 210-230.

TASSONI G., Inchiesta napoleonica sulle costumanze popolari del Dipartimento del Mincio, in «Bollettino Storico Mantovano», nn. 13-14, gennaio-giugno 1959, pp. 37-77.

TASSONI G., Arti e tradizioni popolari. Le inchieste napoleoniche sui costumi e le tradizioni del Regno italico, Bellinzona 1973.

ACCADEMIA NAZIONALE VIRGILIANA DI MANTOVA, ARCHIVIO DELLA VECCHIA ACCADEMIA, b. 42, ms. di Ambrogio Zecchi, La magia screditata.