Giovanni Tassoni

demologo mantovano

·In ricordo di un maestro (di Alberto Castaldini)
·Come l'acqua tra le sponde (di Giancorrado Barozzi)

  • COME L’ACQUA TRA LE SPONDE.
    in ricordo di Giovanni Tassoni

    Quando in una bancarella di libri usati scovai L’Approdo di Giovanni Tassoni (Milano, 1936) mi parve di avere ricevuto dal caso un dono inatteso. Acquistai il volumetto per poco prezzo e me lo portai a casa.

    La sera presi a sfogliare con curiosità questa raccolta di poesie che doveva essere appartenuta a due sorelle di Dosolo, Gabriella e Tullia, come vidi scritto a mano con inchiostro blu sulla prima pagina del volumetto. Lì accanto stava una data, 1937, seguita da un numero romano, segno di un’epoca, per nostra buona sorte, ormai tramontata.

    L’avere tra le mie mani quel libro stampato più di mezzo secolo prima mi diede una strana sensazione. I suoi testi poetici mi comunicarono alcuni piccoli segreti sulla giovinezza dell’autore, un uomo che io avevo conosciuto ormai anziano. Leggere quelle pagine era dunque come stare a spiare attraverso una smagliatura del tempo, creata a bella posta dal poeta.

    Ciascuno di noi si lascia alle spalle qualcosa di sé, che altri -a capriccio del caso- raccolgono con indifferenza o per farne tesoro. Scrisse Tassoni:

    “Passa così in silenzio il viver mio,
    uguale come l’acqua tra le sponde
    piene di morte cose alla deriva.
    Ma tra i rottami e i ruderi del tempo
    sorgon per scherno nuove fantasie,
    che sento, come l’acque, lontanare
    nel gorgo del passato che rivive
    sotto il peso dei sogni e dei ricordi”
    (Pado Patri).

    In questi versi ritrovai l’eco delle sue parole, udite durante certe nostre conversazioni.
    Certo Tassoni non parlava in endecasillabi, ma nel suo eloquio vi era pur sempre un che di ricercato e di sottile.

    Nella seconda metà degli anni Settanta, frequentai qualche volta la sua casa a Verona. A darmi l’indirizzo fu Giorgio Gandini, raccoglitore anch’egli di testimonianze folkloriche della campagna mantovana e promotore del Canzoniere Proletario, ciclostilato in proprio dal “Circolo Ottobre” di Mantova nel dicembre 1972, come supplemento al n. 200 di “Lotta Continua”. Ma di Tassoni già mi avevano parlato Roberto Leydi e Bruno Pianta, i quali lo stimavano come il maggiore folklorista di ambito mantovano. Sta di fatto che quando la Regione Lombardia pubblicò, nel 1976, le mie Ventisette fiabe raccolte nel Mantovano andai a casa sua in Verona, per donargliene una copia.

    Tassoni mi ricevette con grande cortesia e, grazie a lui, mi fu possibile entrare in contatto anche con Rudolf Schenda, il prestigioso artefice dell’Enzyklopädie des Märchens. Qualche anno dopo, durante un convegno sulla fiaba popolare che si tenne all’Università di Pavia, al quale fummo entrambi invitati da Giorgio Cusatelli, ebbi modo di conoscere Schenda di persona. Immediatamente fraternizzammo e diventammo amici.

    Ma torniamo a Tassoni e alle fiabe popolari del Mantovano. Egli aveva iniziato a raccoglierne sin dagli anni Quaranta dalla viva voce dei novellatori orali, ricalcando le orme di un illustre antecedente ottocentesco: Isaia Visentini, che era stato corrispondente di Domenico Comparetti. Ricordo che nel mio primo incontro con Tassoni si parlò a lungo proprio del Visentini e della sua celebre raccolta, della quale si era occupato anche Italo Calvino, mentre dei nostri rispettivi lavori sulla fiaba dicemmo allora ben poco.

    Solo nei nostri incontri successivi, che si svolsero sempre nella sala di studio della sua abitazione veronese, Tassoni ed io mettemmo apertamente a confronto i rispettivi metodi di rilevazione folklorica.

    Nostri argomenti di conversazione furono quindi l’uso del magnetofono e i testi capitali di Vladimir Propp dedicati alla “morfologia” e alle “radici storiche” delle fiabe di magia. Quanto all’utilità effettiva per le indagini demologiche dello strumento tecnico di registrazione della voce, Tassoni si mostrò alquanto scettico; i grandi folkloristi dell’Ottocento (Nigra, Pitré, Comparetti, Imbriani, Nerucci e così via) ne avevano fatto a meno e quindi, disse lui, si poteva continuare sempre allo stesso modo. Ma sull’assoluta importanza del metodo proppiano di analisi e di scomposizione delle fiabe entrambi ci trovammo invece del tutto concordi.

    Nel suo volume di Fole mantovane, pubblicato da Olschki nel 1971, Tassoni si era limitato a citare in bibliografia la “morfologia” di Propp, ma non ne aveva applicato le formule ai singoli racconti. Eppure egli conosceva alla perfezione l’opera del folklorista russo.

    La cultura italiana di allora stava attraversando una fase di rapida (quanto effimera) infatuazione per la semiotica e lo strutturalismo e andava riscoprendo gli antecedenti storici di questa corrente (il formalismo russo e la scuola di Praga degli anni Venti). Tassoni conversava assai volentieri di tutte queste “novità” e nelle nostre chiaccherate demologiche, quando mi recavo in visita da lui, ricorrevano di frequente i nomi sacri e le citazioni di Lévi-Strauss, Jakobson, Bogatyrev, Bachtin, Meletinskj, Lotman, Todorov e Greimas. Tassoni era un lettore attento e aggiornato, sempre al corrente di ciò che a quel tempo si stampava in certe collane antropo-semiologiche del Saggiatore, dell’Einaudi o di Bompiani. Tuttavia, forse per via di un suo personalissimo understatement generazionale, egli non esibì quasi mai nei propri scritti citazioni o “trofei” di questo tipo.

    Che io sappia, solo in una delle sue ultimissime opere (Aspetti del Folklore padano, Guidizzolo, 1989) Tassoni fece menzione di Bachtin e Lévi-Strauss.

    Altrove, nei suoi scritti, la sua curiosità di lettore a la page non ha invece lasciato impronte in superficie. Al metodo strutturale gli scritti di Tassoni riservano solo pochi e misuratissimi apprezzamenti. Nel più importante dei suoi libri, quello del 1973 dedicato alle Inchieste napoleoniche sui costumi e le tradizioni nel regno d’Italia, che uscì a Bellinzona, Tassoni si limitò, ad esempio, a citare in nota due demologi italiani (Antonino Buttitta e Alberto M. Cirese) che allora seguivano “i metodi e le teorie dello strutturalismo”. Ma nella stessa introduzione a quel suo poderoso volume, Tassoni non si fece sfuggire l’occasione di tessere un elogio del proprio paziente lavoro filologico, contrapponendolo all’inconcludenza di certuni. Questo libro, egli scrisse, “non diminuirà di valore se, pubblicandolo, omettiamo d’illustrarlo criticamente nelle sue componenti interne; siamo sicuri che anche così, asciutto e sdutto, sarà accolto con grande compiacenza dagli studiosi…”. Poi, con una punta di legittimo orgoglio, egli rincarò la dose: “Altri s’affaticò prima di noi intorno a questi documenti descrittivi; e forse per voler far tutto -ordinamento e commento- finì col non far nulla, lasciandoli dov’erano, inoperanti e irraggiungibili”.

    Tassoni era dunque ben consapevole di essersi accinto a una fatica assai gravosa e, per assolverla pienamente, aveva saputo rinunciare ad ogni suo commento critico nei confronti dei documenti che andava raccogliendo. Ma fu grazie al suo scrupoloso collazionare carte, trascriverle fedelmente, rintracciarne l’ubicazione dispersa in più biblioteche ed archivi, che egli riuscì a ricomporre quell’autentico “monumento” degli studi folklorici allo stato nascente che fu l’inchiesta Scopoli (vedi documento).

    Ricordo, come fosse ora, il guizzo vivacissimo che mandarono i suoi occhi senili quando, nell’imminenza delle feste natalizie dell’anno 1979 (trascorsi ormai sei anni dalla pubblicazione di quest’opera e tre dall’inizio della nostra frequentazione) egli, per suggellare forse in forma solenne quel patto di stima che vi era noi, mi consegnò raggiante, come una sorta di lascito personale, quel suo tomo di oltre cinquecento pagine a stampa, ricco di preziose notizie sulle tradizioni popolari dell’Italia napoleonica. L’opera è corredata in appendice da una serie di carte tematiche che formano un interessante “Atlante Demologico”. Confesso che quelle carte mi furono di grande stimolo e di incoraggiamento quando (circa vent’anni dopo) mi avventurai nell’impresa dell’Atlante Demologico Lombardo e su di esse, tutt’oggi, continuo a riflettere.

    Dopo di quel Natale, Tassoni ed io non ci incontrammo più di persona, ma continuammo a scambiarci qualche libro e qualche estratto per posta.

    A ripensarci mi pare curioso il fatto che né lui né io abbiamo mai lasciato una firma o una dedica sulle pubblicazioni che per molti anni ci siamo scambiati. Il nostro dialogo si è svolto dunque sempre sotto il segno dell’oralità ed è andato avanti in forme del tutto scevre da qualsiasi rituale accademico o etichetta formale.

    Infine mi sembra un dato altrettanto curioso che quell’affabile interlocutore, che così volentieri conversava di letteratura e dei suoi prediletti autori padani, non mi abbia mai rivelato dei suoi esordi in poesia. Forse lo trattenne un’innata riservatezza, ma sta di fatto che fu solo grazie alla frequentazione fortuita di una bancarella che scoprii questo suo inconfessato “segreto” giovanile.

    Eppure, come ha osservato di recente l’antropologo James Clifford, tra poesia ed etnografia il passo molto spesso è breve. Clifford cita i casi di Michel Leiris, di Aimé Cesaire e di William Carlos Williams, ma ora sappiamo che la stessa cosa vale anche per un illustre demologo mantovano, nato a Viadana nel 1905.

    Giancorrado Barozzi

.